L’arrivo di Benito Mussolini
La bellezza e la maestà di Palazzo Venezia, unita alla forte valenza patriottica acquisita durante il primo conflitto mondiale, catturarono l’attenzione di Benito Mussolini, il quale lo trasformò in un elemento essenziale della sua propaganda
Palazzo Venezia, posto nel cuore della capitale d’Italia e ormai divenuto uno dei simboli della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale, affascinò il leader del Partito Nazionale Fascista, Benito Mussolini. All’indomani della mostra dedicata alle opere restituite dall’Austria egli dichiarò l’intenzione di fare dell’edificio la sede di rappresentanza del suo nuovo governo. Da maestro della comunicazione, Mussolini aveva compreso le potenzialità dell’edificio e in particolare del suo balcone che, affacciato direttamente sulla piazza, gli consentiva di riunire dinanzi a sé folle oceaniche.
Mussolini riservò a sé stesso l’Appartamento Barbo e le sale monumentali, lasciando al museo l’Appartamento Cibo e il Palazzetto. Curiosamente si ripropose allora in qualche modo la suddivisione degli spazi che aveva caratterizzato la vita del palazzo tra il secondo Cinquecento e lo scadere del Settecento, quando era contemporaneamente residenza dei cardinali di San Marco e degli ambasciatori della Repubblica di Venezia.
Palazzo Venezia andò incontro dal 1924 a un’intensa campagna di restauro, così da poter assolvere pienamente alla nuova funzione di governo. I lavori, conclusi nel 1936, incisero profondamente sulla decorazione e anche sull’assetto dell’edificio: lo testimoniano le grandi sale di rappresentanza, la sistemazione finale dell’Appartamento Barbo, l’adattamento del secondo piano ad appartamento privato di Mussolini e lo Scalone d’onore, costruito in stile neo-rinascimentale. La cura dei lavori spettò a un apposito comitato: presieduto da Giuseppe Volpi di Misurata (1877-1947), il comitato si avvalse per la parte tecnica degli storici dell’arte Corrado Ricci e Federico Hermanin, dell’architetto Armando Brasini, al tempo direttore artistico del Vittoriano e dell’ingegnere veneziano Luigi Marangoni (1872-1950).
Mussolini, presente a titolo saltuario nel palazzo dalla metà degli anni Venti, vi si trasferì a titolo definitivo il 16 settembre 1929. Da allora l’edificio entrò in pianta stabile nella politica e nella diplomazia del regime, fra l’altro in quanto cornice delle visite ufficiali dei capi di stato stranieri.
Una campagna fotografica del 7 maggio 1938 ritrae Mussolini con a fianco Adolf Hitler e il suo Ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, mentre dal balcone della Sala del Mappamondo salutano una folla plaudente.
L’ascesa di Mussolini andò d’accordo con lo sviluppo del patrimonio artistico del museo. Al 1933 risale l’ingresso per via testamentaria della collezione di George W. Wurts (1843-1928) e di sua moglie Henrietta Tower (1856-1933), una coppia di ricchi statunitensi che da diversi decenni aveva scelto Roma come seconda patria.
L’anno successivo, il 1934, toccò alla collezione di centonove antichi bronzetti messa in piedi dal mercante d’arte Alfredo Barsanti (1877-1946), in questo caso donata a Mussolini da un gruppo di industriali. Nel 1936 Federico Hermanin poté completare l’allestimento di trentaquattro sale, che dall’Appartamento Cibo si estendevano fino al Palazzetto. Le sale non vennero tuttavia mai aperte al pubblico: di fatto, esse rimasero appannaggio esclusivo di Mussolini, che amava portarvi gli ospiti di maggiore riguardo per mostrare i tesori al loro interno.
Nel pomeriggio del 24 luglio 1943 Palazzo Venezia accolse l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo. A capo di un grande tavolo a U nella Sala del Pappagallo sedette Benito Mussolini, con intorno i ventotto convocati. Fondato nel 1922, il Gran Consiglio era l’organo supremo del regime. Sebbene privo di funzioni vincolanti, nei primi anni del Fascismo esso aveva giocato un ruolo importante, se non altro per conoscere l’opinione delle varie correnti del partito, ma con il tempo aveva finito per inaridirsi. L’ultima convocazione risaliva al 1939: da allora Mussolini aveva preso le decisioni più importanti senza consultarlo, timoroso del confronto con i suoi stessi gerarchi.
L’improvviso risveglio del Gran Consiglio si doveva a un ordine del giorno presentato dal presidente della Camera Dino Grandi (1895-1988). A quel punto le sorti della guerra apparivano ormai compromesse: il 10 luglio le truppe alleate erano sbarcate in Sicilia, senza trovare resistenza degna di nota, il 19 gli aerei angloamericani avevano bombardato la capitale. Dino Grandi, di tendenze moderate e incline a una tregua con gli alleati, intendeva con il suo ordine del giorno privare Mussolini dei suoi poteri supremi e, insieme, orientare l’Italia verso l’uscita dal disastro della Seconda guerra mondiale.
L’esito dello scrutinio si conobbe alle 2.30 del mattino del 25 luglio. Dei ventisette votanti, diciannove si pronunciarono a favore di Grandi, nove contro, uno si astenne. Più avanti, nello stesso 25 luglio Vittorio Emanuele III (1869-1947), destituito Mussolini dei suoi poteri, lo avrebbe fatto arrestare dai carabinieri, per poi trasmettere la notizia via radio alle 22.45. Ma la caduta ebbe inizio esattamente qui, a Palazzo Venezia.
Ormai concluso il periodo legato a Benito Mussolini, Palazzo Venezia continuò a giocare un ruolo attivo anche negli ultimi, drammatici mesi della Seconda guerra mondiale. Il 12 novembre 1943 le autorità italiane riuscirono a portare a buon fine le trattative avviate fin dall’agosto per mettere in salvo all’interno del Vaticano le testimonianze più rilevanti del patrimonio artistico nazionale. Come già avvenuto durante il primo conflitto mondiale, Palazzo Venezia divenne il luogo principale di raccolta. Il 20 e il 21 gennaio del 1944 due sale dell’edificio ospitarono una mostra temporanea quanto obiettivamente straordinaria, al cui termine i capolavori presero la strada della Santa Sede.