Appartamento Barbo
Le sale più antiche del palazzo raccontano ancor oggi la storia del suo committente, il cardinale Pietro Barbo, dal 1464 divenuto papa Paolo II
Con Appartamento Barbo si intendono le sette sale private del cardinale veneziano Pietro Barbo (1417-1471). Costruite dopo il 1455 al costo di 15 mila scudi, esse furono ulteriormente arricchite a seguito della sua elezione a pontefice, con il nome di Paolo II (1464-1471). Qui era custodita fra l’altro la sua celebre collezione di glittica, numismatica e oreficeria.
La destinazione dell’Appartamento Barbo mutò in seguito della donazione del palazzo alla Repubblica di Venezia, nel 1564: le sette sale divennero la residenza degli ambasciatori della Serenissima . Nel 1921, quando il palazzo era già annesso al Regno d’Italia, lo storico dell’arte Federico Hermanin (1868-1953) vi allestì le prime sale del Museo del Medioevo e del Rinascimento. Di lì a poco Benito Mussolini ne fece la sede di rappresentanza del governo fascista. Qui si tennero anche le riunioni del Gran Consiglio del Fascismo, fra cui l’ultima del 25 luglio 1943.
Nel dopoguerra le sette sale tornarono alla destinazione museale. Dopo avere ospitato la collezione permanente, dal 1982 esse servirono per esposizioni temporanee: la loro reintegrazione stabile nel percorso di visita risale al 2016.
In origine le due sale servivano da disimpegno o da anticamere alla stanza da letto e allo studio di papa Paolo II (1464-1471). Alla presenza del pontefice rimanda anche lo stemma nella volta della seconda. Le pareti, oggi nude, erano probabilmente in origine rivestite con arazzi. I pavimenti spettano al ceramista romano Vittorio Saltelli (1887-1958): Saltelli, qui chiaramente ispirato a paradigmi rinascimentali, li eseguì durante i restauri degli anni Venti del Novecento, utilizzando mattonelle in cotto e maioliche policrome.
Al tempo di Paolo II (1464-1471) la sala era un importante ambiente di snodo. La porta sulla destra introduceva al secondo ordine della Loggia della Benedizioni, le tre porte di fronte, ora murate, al viridarium o giardino segreto, poi trasformato in Palazzetto. Attraverso la porta più piccola sulla sinistra Paolo II aveva accesso alla scala a chiocciola dell’antica torre medievale, poi inglobata nella struttura attuale, detta Torre della Biscia. La porta più grande lo conduceva alla cosiddetta Camera della Torre.
La sala conserva il soffitto ligneo originale del quindicesimo secolo decorato con lo stemma di Paolo II. Le mostre delle porte di accesso al viridarium e lo stemma sovrastante sono di epoca successiva: lo stemma, in particolare, riporta alla committenza del cardinale Giovanni Dolfin (1545-1622), titolare di San Marco dal 1605 al 1621. Al centro della sala si può apprezzare un modellino che mostra il complesso anteriormente ai lavori di primo Novecento, che determinarono fra l’altro lo spostamento del Palazzetto lungo via degli Astalli.
La quarta sala, detta Camera della Torre, proprio perché collocata all’interno della torre d’angolo, fungeva con ogni probabilità da studio privato di Paolo II (1464-1471). Essa conserva un bel soffitto originale del quindicesimo secolo con lo stemma del pontefice.
Le mostre in marmo sono più tarde: quella sulla sinistra, che introduce alla quinta sala dell’Appartamento, riporta il nome dell’ambasciatore Niccolò Duodo (1657-1742) e la data 1716.
Nella sala sono oggi esposti alcuni oggetti appartenuti a Pietro Barbo quando era cardinale. La cassetta di viaggio, eseguita in cuoio probabilmente da un artista veneto, presenta una decorazione floreale di gusto classicheggiante e il suo stemma cardinalizio. Di fronte si staglia il Busto di Paolo II, opera del grande scultore toscano Mino da Fiesole (1429-1484).
L’ambiente serviva in origine da stanza da letto di Paolo II (1464-1471). Alla fase originaria appartiene il soffitto. Sulla parete al centro domina lo Stemma in legno di Paolo II: l’opera, attribuita all’architetto e intagliatore fiorentino Giovannino de’ Dolci (notizie 1435-1468), mostra il leone rampante in campo azzurro, sormontato dalla tiara e dalle chiavi incrociate. Rinvenuta nei sotterranei del palazzo all’inizio del Novecento, essa è stato identificata come uno dei lacunari del soffitto della Sala del Mappamondo.
Il nome si riferisce al pappagallo di Paolo II (1464-1471), un animale esotico che al tempo era estremamente raro e costoso. Il papa utilizzava questa sala e la successiva anche per ricevere gli ospiti più fidati.
Il soffitto ligneo presenta motivi ornamentali, putti e lo stemma del pontefice, con il leone rampante sormontato dalla tiara e dalle chiavi incrociate. Il fregio dipinto sottostante è articolato in due registri: il registro superiore mostra puttini che reggono festoni; il registro inferiore girali vegetali alternati a tondi con lo stemma del nipote del papa, il cardinale Marco Barbo (1420-1491). Certamente soffitto e fregio furono realizzati dopo il 1467: quell’anno infatti il soffitto fu rialzato per adeguarlo alla quota dei nuovi saloni di rappresentanza. Il registro superiore del fregio potrebbe essere stato eseguito entro il pontificato di Paolo II; quello inferiore invece dopo il 1471 su incarico del nipote Marco.
In una delle due vetrine è esposto il medaglione in bronzo fatto realizzare da Paolo II nel 1465 per celebrare l’inizio dei lavori di ampliamento del palazzo: sul recto il medaglione mostra l’effigie di profilo del pontefice, sul verso il palazzo stesso, in forme tardo-medievali.
Questa e altre medaglie commemorative venivano poste in salvadanai di coccio, a loro volta collocati all’interno della muratura, secondo un rito di derivazione classica. Nella seconda vetrina sono esposti alcuni di questi salvadanai ritrovati durante i lavori otto e novecenteschi.
Sulla parete di fondo è collocato l’affresco settecentesco che rappresenta Pio IV (1559-1565) mentre dona il palazzo a Giacomo Soranzo (1518-1599), ambasciatore della Repubblica di Venezia.
Durante il ventennio fascista Mussolini fece allestire la sala per tenervi le riunioni del Gran Consiglio: nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 qui si svolse la riunione con l’ordine del giorno Grandi, che portò alla caduta del regime.
La settima e ultima sala dell’Appartamento Barbo prende nome dai paramenti sacri di Paolo II (1464-1471). Le mostre delle porte con lo stemma del pontefice, la decorazione del soffitto ligneo e il fregio a fresco sono quattrocenteschi.
La decorazione del soffitto e il fregio sono certamente successivi al 1467, allorché il soffitto fu rialzato per adeguarlo al livello raggiunto dai nuovi saloni di rappresentanza. Il registro superiore del fregio con puttini che reggono festoni potrebbe essere stato eseguito ancora durante il pontificato di Paolo II, ovvero entro 1471; il registro inferiore, invece, è sicuramente successivo alla morte del papa, dal momento che le paraste recano lo stemma di Marco Barbo.
Nel registro inferiore quattro fontane con amorini che giocano si alternano a otto fatiche di Ercole. L’autore del fregio è ancora ignoto. Alcuni hanno pensato al miniatore toscano Giuliano Amadei (1446-1496), altri a Andrea Mantegna, (1431-1506) o a un suo seguace; altri ancora a un artista veneto legato al circolo romano dell’umanista Giulio Pomponio Leto (1428-1498).
Il pavimento appartiene al terzo decennio del Novecento. Il suo autore, il ceramista Vittorio Saltelli (1887-1958), per realizzarlo reimpiegò le mattonelle sivigliane originali che a loro volta erano state recuperate nel corso del diciannovesimo secolo dal conte Palffy, consigliere dell’ambasciata austriaca.