La fondazione del palazzo
Le origini del palazzo, legate al cardinale Pietro Barbo, poi papa Paolo II
La storia di Palazzo Venezia comincia con Pietro Barbo (1417-1471). Barbo, originario di un’antica e nobile famiglia veneziana, decise di intraprendere la carriera ecclesiastica allorché il cardinale Gabriele Condulmer, che era fratello di sua madre, divenne papa con il nome di Eugenio IV (1431-1447). La scalata di Pietro alla gerarchia ecclesiastica fu anche per questo rapida: la nomina a cardinale diacono cade nel 1440, quando aveva solo 23 anni. Fin da giovane egli dimostrò una passione per l’architettura e per l’arte, che lo condusse a mettere insieme una rimarchevole collezione, per lo più di oggetti classici. Nell’agosto del 1464 Pietro fu eletto papa e assunse il nome di Paolo II (1464-1471).
La zona corrispondente all’odierna piazza Venezia, punto d’arrivo della via Lata, il tratto urbano della Flaminia oggi noto come via del Corso, rimase fino alla metà del quindicesimo secolo ai margini della città medievale e scarsamente popolata. L’area, dominata a sud dal colle del Campidoglio, aveva il suo centro di maggior spicco nella veneranda Basilica di San Marco Evangelista: sorta nel IV secolo e rifatta più volte nei periodi successivi, San Marco rappresentava il punto di raccolta della ‘colonia’ veneta della città.
Da cardinale, Pietro Barbo assunse la titolarità di San Marco nel 1451. Ben presto egli decise di ricostruire ex novo la residenza adiacente, giudicata eccessivamente piccola e modesta. La data d’inizio del cantiere risale al 1455, come attestano alcune medaglie commemorative, ancor oggi nelle collezioni del museo.
Non appena divenuto papa, nell’estate del 1464, Paolo II risiedette all’interno dei Palazzi Vaticani. Ben presto, tuttavia, egli decise di trasferirsi nel palazzo di San Marco, che entrò allora in una nuova fase. Il rilancio del cantiere è attestato da una seconda medaglia, coniata nel 1465, oggi esposta nella Sala del Mappamondo: il palazzo, destinato a sostenere degnamente il nuovo status di residenza pontificia, sarebbe divenuto uno dei più grandi e importanti della Roma rinascimentale.
La questione è ancora ampiamente discussa. Alcuni riferiscono il progetto a Leon Battista Alberti (1404-1472), il grande umanista e architetto di educazione fiorentina o comunque lo considerano la “mente ispiratrice” di alcune idee e soluzioni: diversi elementi dell’edificio, come la facciata, la foggia delle finestre o l’atrio verso oriente riconducono in effetti alla sua lezione.
Altri pensano invece a un allievo diretto di Alberti, Francesco Cereo o del Cera (c. 1415-1468), detto Francesco del Borgo perché originario di Borgo San Sepolcro, vicino Arezzo. Ricordato per la prima volta a Roma nel 1450, Francesco è citato nei documenti come architectus del palazzo alle dipendenze di Paolo II dal novembre 1465 fino alla morte, nel giugno 1468.
A quel tempo risale l’impianto fondamentale del complesso, composto da palazzo, viridarium e chiesa. Il viridarium o giardino segreto serviva anche da loggia. Dalla loggia si godeva di una vista privilegiata sugli spettacoli del Carnevale, che nel 1466 Paolo II trasferì da Monte Testaccio. Durante le festività del Carnevale il papa soleva invitare i magistrati e i cittadini a un solenne banchetto, allestito nei due porticati interni.
Il palazzo serviva a custodire la collezione d’arte e di antichità di Paolo II, composta per lo più da monete, gemme, intagli di pietre preziose e vasi in pietre dure. Fra i pezzi di maggior rilievo spicca un piatto in sardonica di età ellenistica che, già posseduto da Federico II e noto come Tazza Farnese, si trova oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. A sentire l’umanista Bartolomeo Sacchi (1421-1481), detto il Platina, Paolo II trascorreva parecchie delle sue notti ammirando i propri tesori alla luce di candelabri. I bagliori che trapelavano all’esterno attraverso i vetri delle finestre diedero spazio alla credenza popolare che l’edificio fosse abitato da diavoli.
In un clima di generale recupero del patrimonio antiquario, Paolo II iniziò a trasferire nelle immediate prossimità del palazzo importanti testimonianze classiche. L’obiettivo era naturalmente di aumentarne la dignità, soprattutto al cospetto del Campidoglio, che dal Medioevo era la sede delle magistrature cittadine e che incarnava le residue ambizioni di autonomia comunale.
Al 1466 risale lo spostamento di una grande vasca in granito grigio ritrovata alle Terme di Caracalla e allora nella chiesa di San Giacomo al Colosseo. La vasca, che per qualche tempo valse alla piazza il nome di ‘piazza della conca di San Marco’, avrebbe trovato la propria sistemazione definitiva in piazza Farnese.
Nel 1467 Paolo II fece sistemare dinanzi alla facciata principale del palazzo, rivolta a oriente, il Sarcofago di Costanza, eseguito in porfido rosso nel IV secolo probabilmente ad Alessandria di Egitto e fino allora nella chiesa romana di Sant’Agnese. La nuova sistemazione durò solo pochi anni: alla morte di Paolo II, il successore Sisto IV (1471-1484) restituì il sarcofago alla chiesa. Il suo definitivo spostamento ai Musei Vaticani risale al 1788.
Paolo II accarezzò anche l’idea di trasferire qui il Monumento equestre di Marco Aurelio, che al tempo si trovava sul Laterano. Per questo egli lo fece restaurare dal mantovano Cristoforo di Geremia (1410-1476), esperto nel campo della medaglistica e dell’arte in bronzo. In questo caso, tuttavia, i piani del pontefice non andarono a effetto. Il Marco Aurelio rimase al suo posto: solo nel sedicesimo secolo avrebbe trovato la propria definitiva collocazione alla sommità del Campidoglio, nell’ambito della sistemazione michelangiolesca.