Il ritorno alla normalità
All’indomani del conflitto Palazzo Venezia si immerge nuovamente nell’arte: una serie di esposizioni, il museo e il reinsediamento degli uffici della tutela segnano una strada nuova, che l’allontana definitivamente dalla diplomazia e dalla politica attive
Uno dei temi che segnarono le ultime fasi della Seconda guerra mondiale consistette nel porre in salvo le principali opere d’arte italiana dalle razzie dei tedeschi. Aldo De Rinaldis (1882-1949) e ancor più Emilio Lavagnino (1898-1963) rientrano nel novero di quegli storici dell’arte che profusero ogni sforzo in questo senso, talvolta a rischio della vita. L’uno e l’altro fecero perno su Palazzo Venezia. Al soprintendente De Rinaldis si deve fra l’altro la mostra Capolavori della pittura europea: aperta dal 28 agosto 1944 al 18 febbraio 1945 nell’Appartamento Barbo su incarico del Governo militare alleato, la mostra vide protagoniste proprio quelle opere che nei mesi precedenti erano state ricoverate a Roma e in Vaticano.
Quanto a Lavagnino, ispettore di soprintendenza e poi direttore della Galleria Nazionale d’Arte Antica, egli si era assunto la responsabilità di trasferire in Vaticano centinaia di capolavori provenienti da ogni parte d’Italia, molti dei quali erano appunto transitati nelle sale di Palazzo Venezia. Non basta. Fondatore già nel 1944 con un altro convinto antifascista, Umberto Zanotti Bianco, dell’Associazione nazionale per il restauro dei monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Lavagnino nel 1945 organizzò sempre a Palazzo Venezia la Mostra d’Arte Italiana: l’iniziativa, la prima del genere pensata e messa in piedi da italiani, contribuì a riconoscere nel patrimonio artistico uno dei principali strumenti per ricostruire un nuovo e democratico rapporto tra la cultura e la società del paese, sconvolto dal regime fascista e dalla guerra.
Ma perché proprio Palazzo Venezia? Sia De Rinaldis che Lavagnino intenzionalmente stabilirono un ponte con l’ormai storica mostra degli oggetti d’arte restituiti nel primo dopoguerra dall’Austria-Ungheria, per riconsegnare alla collettività un patrimonio di arte, di storia e di cultura che per troppo tempo era stato sottratto da un duplice potere tirannico, il regime fascista e l’esercito tedesco. Non certo a caso, le mostre si tennero nell’Appartamento Barbo, il luogo di cui a suo tempo si era appropriato Benito Mussolini.
Le mostre del 1944 e del 1945 spianarono la strada alla riapertura al pubblico del Museo di Palazzo Venezia, avvenuta nello stesso 1945 all’interno del piano nobile. La responsabilità cadde sulle spalle del nuovo direttore, Antonino Santangelo (1904-1965). Durante gli anni che seguirono Santangelo si diede molto da fare per ampliarne le collezioni, fra l’altro accaparrandosi la collezione di Gennaro Evangelista Gorga, detto Evan (1865-1957).
Gorga, tenore di fama internazionale, era altresì noto come un vorace collezionista d’arte e ancor più di strumenti musicali. Egli ne aveva offerto un assaggio nel 1911, allorché, in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, oltre mille pezzi erano stati esposti temporaneamente a Castel Sant’Angelo, catturando l’attenzione e l’ingordigia del banchiere John Pierpont Morgan. La convenzione ministeriale per la conservazione in Italia delle opere Gorga porta la data 27 novembre 1949. L’anno seguente, il 1950, una parte consistente prese la strada di Palazzo Venezia.
Nei primi anni Cinquanta le raccolte custodite all’interno di Palazzo Venezia assunsero una decisa curvatura verso le arti applicate, o arti decorative. La decisione risentì certamente dell’acquisto di Palazzo Barberini nel 1949 e della decisione di farne la seconda sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica. Entro il 1953 s’indirizzo su Palazzo Barberini un congruo numero di dipinti già in Palazzo Venezia, inclusi parecchi già della collezione di Henrietta Hertz.
Sempre in quest’ottica Palazzo Venezia si vide assegnare pezzi che un tempo erano appartenuti al Museo Artistico Industriale, o MAI. Il MAI, legato all’iniziativa del principe Baldassarre Odescalchi (1844-1909), era sorto nel 1874, con l’obiettivo di ricalcare le orme del South Kensington Museum di Londra, l’odierno Victoria & Albert Museum, ma alla fine non era mai realmente decollato. Fra i molti oggetti del MAI che possono ancor oggi apprezzarsi a Palazzo Venezia vale almeno segnalare i quattro rilievi con Storie di san Girolamo di Mino da Fiesole.
Il particolare indirizzo assunto dal museo proseguì nel 1959, con l’acquisto della collezione del principe Ladislao Odescalchi (1846-1923). Al pari del fratello Baldassarre, Ladislao era stato uno dei protagonisti della Roma artistica fin de siècle, distinguendosi per gli interessi verso l’arte e ancor più verso le armi di ogni tempo e di ogni paese. Per mettere insieme la sua collezione egli si era rivolto ad antiquari e collezionisti di tutt’Europa.
La cosiddetta Armeria Odescalchi, alla morte di Ladislao trasmessa al nipote Innocenzo e riordinata nel palazzo avito ai Santi Apostoli, contava nel 1953 duemila tra armi da fuoco e da taglio, da offesa e da difesa. Circa ottocento presero la strada del Castello di Bracciano, dove si trovano ancor oggi; quanto alle restanti milleduecento, esse furono acquisite dallo Stato italiano, con destinazione Palazzo Venezia. Nel 1969, al tempo della direzione di Maria Vittoria Brugnoli (1915-2013), le armi trovarono sistemazione provvisoria nei saloni monumentali, attraverso un allestimento curato per la parte scientifica da Nolfo di Carpegna (1913-1996).
Il 23 giugno del 1982 venne inaugurata la mostra Garibaldi. Arte e Storia: la mostra era organizzata in due sezioni, una, sulla storia, al Museo Centrale del Risorgimento, l’altra, sull’arte, nei saloni monumentali di Palazzo Venezia. Nel corso degli anni il palazzo aveva continuato a ospitare esposizioni a carattere temporaneo, spesso adeguandosi alla curvatura sulle arti applicate acquisita nel frattempo dal suo museo. Tali erano state Arazzi francesi dal Medioevo del 1953, la Mostra storica nazionale della miniatura del 1959, a cura rispettivamente di Georges Fontaine e di Giovanni Muzzioli, o, ancora, la Mostra di Disegni delle Collezioni Reali d’Inghilterra a Windsor del 1961.
Garibaldi, Arte e storia si pose comunque in modo diverso, aprendo di fatto un’epoca nuova. In un clima di crescente interesse verso i beni culturali, il commissario della mostra, la storica dell’arte Sandra Pinto (1939-2020) interpretò l’edificio come la sede idonea a eventi di risonanza nazionale e internazionale, che fossero capaci di tenere unite qualità scientifica e alta divulgazione. Lungo il sentiero battuto dalla storica dell’arte romana si mossero Gianfranco Spagnesi con Il colore della città del 1988, Dante Bernini con Caravaggio: nuove riflessioni del 1989, alle quali seguirono eventi monografici dedicati, fra gli altri, a Pietro da Cortona, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio e Sebastiano del Piombo, l’uno curato da Anna Lo Bianco, i tre restanti da Claudio Strinati.
Per fare spazio a Garibaldi, Arte e storia gli organizzatori smantellarono una parte consistente dell’esposizione permanente del museo, compresa l’Armeria Odescalchi. L’operazione, che all’inizio doveva avere un carattere temporaneo, anche per via del successo di quella mostra, avrebbe caratterizzato il futuro assetto sia dell’Appartamento Barbo che dei saloni monumentali, ancor oggi privi di arredi. Di fatto, la strada delle grandi mostre, pagante sul piano del pubblico occasionale, implicò il confinamento del museo di Palazzo Venezia fra l’Appartamento Cibo e il secondo piano del Palazzetto.
Il museo di Palazzo Venezia appare dunque segnato nel periodo successivo da una serie di interventi puntuali, uniti dal desiderio di valorizzare le singole collezioni. Nel 1983 si decise di ripartire gli oggetti per categorie: gli uni dopo gli altri ecco dunque allinearsi i dipinti, le maioliche, i bronzetti, le terrecotte e così via. Questo indirizzo, che recuperava la curvatura sulle arti applicate assunta nel corso degli anni Cinquanta, si rispecchiò alla fine degli anni Ottanta nell’allestimento museografico di Franco Minissi (1919-1996).
Nel luglio 2006 Maria Giulia Barberini inaugurò il lapidarium del Museo. Nel corso del tempo erano confluite a Palazzo Venezia diverse centinaia di opere in marmo o in altre pietre, scalate fra l’età classica e il XVII secolo. Alcune erano giunte alla luce nel primo Novecento, durante gli scavi per le fondamenta del nuovo Palazzetto, altre provenivano dal Museo Artistico Industriale o dalla raccolta di palazzo Mattei. Il lapidarium fu allestito all’esterno del secondo piano del Palazzetto, affacciato sull’incantevole cortile degli aranci.