Nel dopoguerra molti identificarono il Vittoriano solo e unicamente con il regime fascista e con la sua retorica imperialista. Travisato e appiattito criticamente, il Monumento subì aspre critiche, la chiusura al pubblico e la condanna in un processo per “offesa estetica”
In quanto palcoscenico del regime fascista, il Monumento nel dopoguerra dovette fare i conti con una profonda spirale critica. Ironicamente, guadagnarono credito gli strali a suo tempo scagliati da Giovanni Papini e da altri futuristi, a loro volta tacciati di fascismo. Diventò allora di moda riferirsi al Vittoriano attraverso insulti di matrice avanguardista o appunto futurista, da “torta alla panna” a “macchina da scrivere”.
Veduta del Vittoriano a metà del XX° secolo
12 dicembre 1969, ore 17.30: in concomitanza alla strage di piazza Fontana a Milano, due bombe esplosero all’interno del Vittoriano. L’attentato provocò seri danni alle strutture, anche se non vittime. Ragioni di sicurezza consigliarono allora di chiudere il Monumento, ma di fatto lo tagliarono fuori dai circuiti di visita e ne accentuarono l’isolamento dal pubblico.
La prima pagina de La Stampa dedicata agli attentati del 1969
Il declino critico dell’edificio proseguì negli anni successivi all’attentato nel 1969. Il punto più basso venne raggiunto nel 1986, allorché il vicino Palazzo Venezia accolse una sorta di ‘processo’ al Vittoriano, che aveva come obiettivo ultimo la sua demolizione. “Estraneità e sopraffazione sulla città circostante”, l’accusa di alcuni intellettuali e critici.
L'architetto Bruno Zevi fu tra i banchi d'accusa ad un curioso "processo" al Vittoriano, tenutosi a Palazzo Venezia nel 1986, che aveva come obiettivo la sua demolizione