Sala del Mappamondo

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Sala del Mappamondo
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Un ambiente vasto e maestoso rievoca fatti e racconta persone vissute nell’arco di oltre cinque secoli

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La sala venne fatta costruire da Pietro Barbo, subito dopo la sua elezione a papa con il nome Paolo II (1464-1471) come sala di rappresentanza: l’obiettivo era ampliare e abbellire il proprio palazzo cardinalizio fino a trasformarlo in una residenza alternativa al Vaticano.

 

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Il nome con il quale è tuttora conosciuta si deve a un planisfero, in origine collocato al centro della parete occidentale e oggi perduto. Riferito alla committenza dello stesso Paolo II e dunque al cartografo veneziano Girolamo Bellavista, documentato a Roma durante il suo pontificato, esso invece fu commissionato dopo la sua morte dal cardinale Marco Barbo (1420-1491): questi nel 1489 si rivolse addirittura a Lorenzo il Magnifico (1449-1492), signore di Firenze, per recuperare carte geografiche più aggiornate da usare come modello.

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Utilizzata dai pontefici proprio per accogliere gli ospiti fino alla fine del Cinquecento – qui Paolo III (1534-1546) incontrò l’imperatore Carlo V (1500-1558) e stabilì la convocazione del Concilio di Trento – la sala fu variamente adibita nel corso del Sei e Settecento. 

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Sede dell’istituendo museo di Palazzo Venezia negli anni Dieci del Novecento, la sala fu scelta da Benito Mussolini per stabilirvi il proprio quartiere generale: sistemata la propria scrivania accanto al camino, il dittatore qui lavorava, riceveva gli ospiti e arringava la folla, affacciandosi dal balcone. Ricondotta alla funzione museale nel secondo dopoguerra, la sala ha prima accolto le collezioni permanenti del museo e poi, dagli anni Ottanta, mostre temporanee: dal 2016 è tornata a far parte stabilmente del percorso di visita

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Decorata nella seconda metà del Quattrocento, la sala subì numerose modifiche nel Sei e nel Settecento. A partire dal 1917 lo storico dell’arte Federico Hermanin (1868-1953), allora Soprintendente alle Gallerie e ai Musei del Lazio e degli Abruzzi, ripristinò l’assetto quattrocentesco e riallestì l’ambiente nelle forme di una dimora rinascimentale. Smontato nel secondo dopoguerra l’allestimento in stile, la sala si fa ammirare oggi per la grandiosità dello spazio e delle decorazioni. Le pareti presentano una finta architettura che serve ad ampliare illusionisticamente lo spazio: si tratta di un portico con otto colonne su basi in forma di ara classica e un fregio decorato con medaglioni con i Dottori della Chiesa.

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Questa decorazione, avviata sotto Marco Barbo (1420-1491), fu completata da Lorenzo Mari Cibo (1450-1503) durante il pontificato di Innocenzo VIII (1484-1498), come ricordano i tre stemmi sulla parete occidentale.  Successivamente scialbata, ovvero ricoperta da uno strato di intonaco e da altre pitture, essa venne riportata alla luce negli anni Dieci del Novecento: Hermanin ne recuperò i pochi lacerti superstiti, li attribuì ad Andrea Mantegna (1431-1506) e ne affidò l’integrazione al pittore-restauratore Giovanni Costantini (1872-1947). 

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Le mostre di porte e il camino monumentale recano lo stemma cardinalizio di Marco Barbo e sono riconducibili alla sua committenza. Impreziosito da un fregio con nastri, foglie e frutta, il camino è stato attribuito a Mino da Fiesole (1429-1484) e Giovanni Dalmata (1440-1515).

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Niccolò Duodo
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Nella parete occidentale si aprono una sequenza di finestre: una di queste e il relativo balcone in marmo furono aggiunti nel 1715 per volere dell’ambasciatore Niccolò Duodo (1657-1742). In questo modo i residenti e gli ospiti del palazzo potevano godere di una magnifica vista durante le feste di Carnevale, in particolare verso l’arrivo della corsa dei cavalli berberi. 

 

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Il soffitto, il lampadario e il pavimento a mosaico furono aggiunti nel corso degli anni Venti del Novecento da Hermanin. Il soffitto si rifà a un modello del 1496, ancor oggi esistente nella chiesa di San Vittore a Vallerano, nei pressi di Viterbo: la sola variante, oltre alle dimensioni, consiste nell’aggiunta di medaglioni con stemmi di Roma e di Venezia.

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Il pavimento, opera di Pietro D’Achiardi (1879-1940), raffigura Il ratto d’Europa con divinità marine e segni zodiacali nel bordo e s’ispira ai mosaici delle Terme di Nettuno a Ostia Antica.

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Nella sala sono oggi esposti alcuni oggetti appartenuti a Pietro Barbo quando era cardinale. La cassetta di viaggio, eseguita in cuoio probabilmente da un artista veneto, presenta una decorazione floreale di gusto classicheggiante e il suo stemma cardinalizio. Al centro della sala si staglia il Busto di Paolo II, opera del grande scultore toscano Mino da Fiesole (1429-1484).

 

Alle sue spalle si staglia lo Stemma in legno di Paolo II: l’opera, attribuita all’architetto e intagliatore fiorentino Giovannino de’ Dolci (notizie 1435-1468), mostra il leone rampante in campo azzurro, sormontato dalla tiara e dalle chiavi incrociate. Rinvenuta nei sotterranei del palazzo all’inizio del Novecento, essa è stata identificata come uno dei lacunari del soffitto che in origine ornava proprio questa sala.

 

In una delle due vetrine è esposto il medaglione in bronzo fatto realizzare da Paolo II nel 1465 per celebrare l’inizio dei lavori di ampliamento del palazzo: sul recto il medaglione mostra l’effigie di profilo del pontefice, sul verso il palazzo stesso, in forme tardo-medievali.

 

Questa e altre medaglie commemorative venivano poste in salvadanai di coccio, a loro volta collocati all’interno della muratura, secondo un rito di derivazione classica. Nella seconda vetrina sono esposti alcuni di questi salvadanai ritrovati durante i lavori otto e novecenteschi.

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